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Boss o bossy il tuo capo?

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Gaia Fiertler

Cosa si aspettano gli italiani dal proprio capo, cosa apprezzano in lui, cosa vorrebbero e, soprattutto, cosa ritengono gli manchi per essere un buon capo? Dalla domanda indiretta se consigliare o meno il proprio responsabile si ricavano informazioni sulle relazioni prevalenti tra capo e collaboratore e indicazioni su come migliorare il clima aziendale, l’engagement dei dipendenti e l’affezione al lavoro, partendo proprio da quella dinamica.

Dalla ricerca “Good boss vs. bad boss. Le nuove competenze dei manager 4.0”, realizzata del Centro sul cambiamento, la leadership e il people management di Liuc Business School, i manager italiani escono con le ossa rotte: tre su quattro non consiglierebbero il proprio capo, ma non sembra una condizione solo italiana, anzi.

«I risultati ci confermano una tendenza internazionale. Nella ricerca 2017 di Gallup l’87% dei lavoratori si dichiarava “disengaged”, un dato su cui vogliamo invitare i manager a riflettere. In estrema sintesi, il monito può essere: il modo col quale tratterete i vostri collaboratori sarà lo stesso con cui loro tratteranno i vostri clienti», asserisce Vittorio D’Amato, direttore del Centro della Liuc Business School (in foto a lato).

Il Net promoter score applicato al management

In collaborazione con la francese Iéseg - School of Management, con il Cfmt di Manageritalia e con Aiads, l’Associazione italiana di analisi dinamica dei sistemi, la ricerca ha coinvolto oltre 600 dipendenti di aziende italiane, utilizzando il Net management promoter score, una metrica introdotta nel marketing da Fred Reichheld nei primi anni Duemila come Net promoter score sulle propensioni dei consumatori e adattata al management da Julian Birkinshaw della London Business School dieci anni dopo, autore di “Becoming a better boss: Why Good Management is so difficult” (2013).

Nella ricerca di Liuc la propensione a consigliare il proprio capo è stata misurata sulla base di 14 comportamenti manageriali, selezionati da Birkinshaw come quelli caratterizzanti un leader efficace oggi.

Risultato? Non abbiamo bravi capi

Quasi il 75% del campione non consiglierebbe il proprio capo perché non definisce chiaramente ruoli e responsabilità, non dà feedback tempestivi, non fa in modo che i collaboratori abbiano tutte le risorse per svolgere bene il proprio lavoro, non sa gestire le proprie emozioni né quelle altrui (la cosiddetta “intelligenza emotiva”), ha paura di prendere decisioni difficili, non ha chiare linee d’azione su come conseguire i propri obiettivi e sviluppare la propria area e così via.

In particolare, quasi il 40% afferma che non lo consiglierebbe affatto e quasi il 34% non si pronuncia, resta neutrale, e quindi di fatto rientra nel novero di chi comunque non lo consiglierebbe attivamente.

C’è invece un 26% di dipendenti che consiglierebbero il proprio capo perché ne apprezzano la capacità di lasciare libertà nel modo di conseguire i risultati, la disponibilità al confronto se richiesto (la cosiddetta “porta sempre aperta”), la capacità di ascolto delle opinioni altrui, il coraggio nel prendere decisioni difficili e la chiarezza delle linee d’azione per raggiungere i propri obiettivi.

Si chiede autonomia nel lavoro con l’aiuto delle tecnologie

In sostanza, la preferenza oggi va verso una leadership non più basata sul principio “comanda e controlla”, ma sulla fiducia e responsabilità dei collaboratori e sull’ascolto attivo dei capi. Abitudini però ancora poco consolidate nelle imprese, visto che sono segnalate solo da quel 26% favorevole e, peraltro, sono agli ultimi posti tra le ragioni per cui non consigliarlo.

«Emerge un trend - aggiunge D’Amato - che è tipico delle generazioni più giovani, più orientate rispetto a quelle precedenti a una gestione autonoma del lavoro, in cui a contare sono i risultati e non le modalità operative. Ma come favorire l’autonomia del lavoro, da che cosa partire? «Sono dati che ci parlano di Smart Working, di flessibilità dei tempi e dei luoghi di lavoro e anche di conciliazione tra vita e professione. Senza perdere, però, in produttività grazie anche all’aiuto delle nuove tecnologie», conclude d’Amato.

L’intelligenza emotiva è richiesta già in fase di selezione: come farla funzionare in azienda

Emerge anche come rilevante, in quanto desiderata, la capacità di gestire le proprie emozioni e quelle altrui, la cosiddetta “intelligenza emotiva”, che Daniel Goleman descrive nel libro omonimo del 1995 come funzionale anche al successo delle organizzazioni. All’epoca si trattò di una rivoluzione per un pensiero dominante basato sulla convinzione di una possibile esclusiva gestione razionale delle aziende, ampiamente confutata da ricerche sul campo e dall’andamento economico degli ultimi anni. Le emozioni entrano in gioco e come nelle organizzazioni e iniziano a risultare rilevanti per gli effetti prodotti.

Ma quanto efficacemente gestiamo le emozioni? Ancora poco a detta dei lavoratori italiani, che nella ricerca di Liuc segnalano questa carenza al quarto posto come motivo per non consigliare il proprio capo.

Eppure l’intelligenza emotiva è tra le prime 10 competenze richieste dal World Economic Forum entro il 2020 per affrontare complessità e volatilità dei mercati e aiutare i collaboratori a sentirsi coinvolti pur nell’incertezza del cambiamento continuo.
Anche il recente Workplace Trend 2018 del Gruppo Sodexo, che ha messo a punto uno strumento, Personix™, che attraverso i dati “psicografici” dei dipendenti ne delineerebbe le motivazioni dominanti, le attitudini, gli stili di vita, le personalità e i valori, conferma che l’intelligenza emotiva inizia a essere apprezzata e richiesta nelle imprese.

In particolare, più di un head hunter su tre la richiede già in fase di selezione: sapersi ascoltare e gestire sé e gli altri anche da un punto di vista emotivo sono abilità che migliorano le performance aziendali. Sono quattro gli aspetti su cui dovrebbe agire l’intelligenza emotiva e sociale per migliorare il clima aziendale, il lavoro di squadra, l’engagement dei collaboratori e la loro produttività, secondo il modello delle competenze dell’intelligenza emotiva e sociale sviluppato da Richard Boyatzis e Daniel Goleman:

  1. autoconsapevolezza: sapere cosa si sente e perché
  2. autogestione: gestire le emozioni stressanti e individuare le emozioni positive
  3. consapevolezza sociale: riconoscere ed entrare in empatia, in connessione, con le emozioni altrui
  4. gestione delle relazioni: lavorare efficacemente con gli altri, risolvere i conflitti, ispirare e motivare.
Boss o bossy il tuo capo? - Ultima modifica: 2018-11-26T12:15:58+01:00 da Gaia Fiertler